
L’Olanda approdata alla finale in Argentina era una lontana e sbiadita parente della formazione irresistibile che quattro anni prima in Germania Ovest aveva sbalordito il mondo con un calcio rivoluzionario e spettacolare. L’abbandono a soli 31 anni di Johan Cruijff, il profeta, il solo fuoriclasse in grado di nobilitare quegli schemi impregnati di atletismo e di forza fisica, aveva tolto fantasia ed ispirazione alla manovra. Ernst Happel, lo scontroso e formidabile tecnico austriaco che guidava gli orfani di Johan Cruijff, era tuttavia riuscito ad allestire una squadra ugualmente competitiva, seppur di alterni umori. Il telaio era ancora costituito dagli sfortunati eroi di Monaco di Baviera: il portiere anomalo Jongbloed, Surbieer e Krol, Jansen e Neeskens, Rep e Rensenbrink, Rijsbergen e Haan. I nuovi, non di eccelsa qualità, erano Brandts, Poortvliet, Van Kraay, Nanninga e gli ottimi gemelli Renè e Willy Van de Kerkhof. Era un’Olanda meno scintillante, ma capace di randellare scientificamente, nei momenti di emergenza: l’aveva dimostrato rovesciando la partita con l’Italia, che le era tecnicamente superiore, proprio per averla messa sul piano fisico ed intimidatorio. Sicuramente, se c’era una squadra insensibile al fattore campo, sufficientemente sfrontata per non subire il pesante condizionamento di un pubblico scatenato, questa era l’Olanda. C’era molta attesa per la designazione dell’arbitro, dopo i ripetuti favori ricevuti dai padroni di casa che avevano fatto drizzare le antenne a tutti gli osservatori. La scelta dell’italiano Gonella parve una sufficiente garanzia. Va detto che, inizialmente, era stato designato l’isreliano Klein (che aveva diretto Argentina–Italia 0–1), ma gli argentini protestarono e così venne scelto l’arbitro italiano. L’Argentina aveva raggiunto la finale dopo la famosa gara contro il Perù. La gara dell’Argentina era stata disputata dopo che era terminato l’incontro del Brasile, così da sapere quale risultato servisse per raggiungere la finale. I carioca avevano battuto
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